(corriere.it - cultura - 11 aprile 2011)
Negli anni Cinquanta realizzò «Three Flags», icona del mondo contemporaneo. Vive da tempo nel Connecticut in un isolamento inviolabile. Come lo scrittore J. D. Salinger
Come J. D. Salinger. Jasper Johns ha qualcosa dell’autore del Giovane Holden. Oramai è un mito, che si è rinchiuso in un isolamento inviolabile. Spesso, si parla di lui come se appartenesse solo alla storia. Intorno al suo carattere sprezzante fioriscono leggende. Misantropo, tende a non farsi vedere in pubblico. Si sottrae ai confronti: preferisce non partecipare neanche alle inaugurazioni delle sue stesse mostre. «Lathe biosas» (in greco, «vivi nascosto»): in questo motto caro ai filosofi epicurei si cela la sua identità. Distante dai circuiti ufficiali di galleristi e mercanti, è insofferente ai riti del jet set, alle mode e alle tendenze. Corteggiato da direttori di musei e da critici, trascorre interi mesi senza lavorare. Sembra indifferente a ciò che lo circonda. Quali ragioni si celano dietro questa scelta del silenzio? Orgoglio o modestia? Arroganza o disincanto? Snobismo o disperazione? Infantilismo o maturità? Disprezzo di un ambiente cui appartiene o bisogno di difendersi da quello stesso ambiente? Necessità di essere diverso dagli altri o necessità di essere come gli altri?
Incontrare Johns è difficile: si trincera dietro mille barriere protettive. Come avvicinarsi a lui? Bisogna superare ritrosie, esitazioni. Impossibile parlargli al telefono. Si può solo provare a inviargli una email, sottoponendogli - non senza timori - alcune domande. Nella maggior parte dei casi, queste email restano come messaggi lanciati nel vuoto. Invece, dopo settimane di silenzio, Johns ci ha risposto dalla sua tenuta nel Connecticut, dove, dal 1995, si è ritirato. Lì dipinge senza fretta, con lunghe pause, rimodulando continuamente il suo impero dei segni, che è stato celebrato nel 1997 in una vasta retrospettiva al MoMA di New York.
Nel tempo, questo impero si è sempre più arricchito: spunti ulteriori, rivelazioni improvvise, occasioni inattese. Si tratta di un regno fatto di cifre e di grafie estratte dal dialogo con il reale. La sfida: catturare tracce distratte, episodi marginali, asterischi insignificanti. Erede di Duchamp e padre di Warhol, Johns - Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 1988 - si sofferma, prevalentemente, su oggetti anonimi: sui «luoghi comuni». Risalgono alla metà degli anni Cinquanta i tiri a segno e le bandiere Usa. Sono cicli fondati sul recupero di alcuni stereotipi di massa. Che, tuttavia, si offrono a noi anche come spazi geometrici, regolarmente delineati, in forte consonanza con le esperienze minimaliste dei protagonisti della Scuola di New York (Newman, Reinhardt, Stella, Noland). Architetture elementari, specchio di una sorta di esprit de géométrie. Uno spirito che, però, non si fa ingabbiare dentro soluzioni impersonali, ma viene esaltato da stesure vibranti, sfiorate da una espressività struggente. Siamo dinanzi a quello che, con il titolo di un quadro di Frank Stella del 1964, potremmo definire «Jasper’s Dilemma».
Il dilemma di Johns consiste proprio in questo: nell’accostare spostamento e riconfigurazione, rappresentazione e astrattismo, illusionismo e anti-illusionismo, adesione al paesaggio artificiale e slancio analitico, ripresa di stratagemmi antichi (come l’encausto) e investigazione sulla specificità del linguaggio artistico. Non assistiamo mai al trionfo della riproducibilità tecnica (come accade nelle serigrafie warholiane). Johns non trasgredisce le regole del fare con le mani: rifiuta ogni replica anti-umanistica. Si appropria delle icone popolari, senza abbandonare i mezzi propri della pittura: sovrappone fitti strati di colore - di origine fauve - ai «dati» acquisiti, suggerendo imprevisti sconfinamenti tra stile e mondo.
La medesima dialettica si può ritrovare nelle mappe e nei sillabari fatti di numeri e di lettere: non affreschi omogenei, ma mosaici dissonanti, che evocano un cubismo polverizzato. E nelle tele degli anni Sessanta, nelle quali Johns, sulle orme della lezione di Schwitters, inserisce tessere vere. Sono assemblaggi cauti e circospetti. Tavole magmatiche in cui sono incastrati arnesi, che smarriscono ogni tridimensionalità. Lattine di birra, lampadine e cucchiaini vengono corrosi, ossidati, consunti. Intorno a reperti ovvi si disegna una cerimonia quasi metafisica: silente, statica. In essa tutto è evidente e, insieme, misterioso. Vi si afferma una fissità tesa, attraversata da imperfezioni, inesattezze, sbavature.
Nei decenni successivi, questa monumentalità è stata sostituita da una narrazione visiva più labirintica, aggrovigliata, ermetica. Assecondando un impulso dionisiaco, le pennellate, progressivamente, si emancipano da ogni bordo, per naufragare in costellazioni ambigue. Si respira il senso dell’apocalisse: di una deflagrazione in atto. In tal senso, illuminanti gli esercizi degli anni Ottanta e Novanta, che confermano la capacità di Johns nel non ripetersi mai: le sue sono incessanti variazioni sul tema. Nelle più recenti sperimentazioni, si compie il definitivo tramonto del pop. A imporsi è la sapienza di uno straordinario pittore di scritture, sorretto dalla convinzione secondo cui, per dirla con Roland Barthes, «nulla separa la scrittura dalla pittura: entrambe sono fatte dello stesso tessuto, che forse è semplicemente, come nelle cosmogonie più moderne, la velocità». Questo itinerario viene ora ricostruito, per passaggi esemplari, in un’antologica, intitolata Las huellas de la memoria, curata da Martine Soria, all’Ivam di Valencia (fino al 24 aprile). Tra i momenti più rilevanti del percorso espositivo, una delle ultime bandiere stars and stripes (del 1987)... (www.corriere.it)
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