da gqitalia.it:
In
Gimme Danger vi capiterà di vedere Iggy seduto su una sedia, in
ciabatte, in una stanza che sembra una lavanderia nel retro di
un’abitazione. Oppure lo vedrete su un trono, scalzo, con dei
teschi affianco. Estremi e facce della stessa medaglia: la
naturalezza di essere se stesso, ovunque: «Non voglio essere
etichettato come glam o alternativo. Non voglio essere nulla di tutto
questo. Non voglio essere un punk. Voglio soltanto… essere».
E
in effetti Iggy Pop e gli Stooges non sono stati nulla di tutto
questo ma sono stati tutto. Sono stati la fiammella e il germe
generatore prima dell’esplosione del punk. Sono arrivati nel
momento giusto per «dare una mano a spazzare via gli anni 60».
James
Newell Osterberg, così è registrato all’anagrafe, è rilassato,
guascone, ammiccante, pronto a raccontarsi a favore di telecamera. Di
fronte, più che un intervistatore, c’è un amico: Jim Jarmusch.
Non
è la prima volta che l’Iguana appare in un lavoro del regista di
Akron: c’è chi lo ricorda in Deadman (1995) con Johnny Depp e chi
in dieci minuti di dialogo con Tom Waits in Coffee and Cigarettes
(2003), una delle pagine di rock prestate al cinema più surreali
possibili.
Gimme
Danger è l’esaltazione e il riposizionamento al centro di tutto
degli Stooges, dei quali spesso non si parla abbastanza diffusamente.
Jim
Jarmusch lo dichiara senza troppi giri di parole: «È la nostra
lettera d’amore per quella che probabilmente è la più grande band
nella storia del rock’n’roll». Il giusto tributo al gruppo
intero – non solo a Iggy.
Spesso
si parte dal punk, si citano i Sex Pistol per il fronte inglese e i
Ramones per il fronte punk rock americano. I due riferimenti più
popolari che monopolizzano qualcosa, che però, senza Iggy Pop e gli
Stooges, non sarebbe mai esistito.
Gli
Stooges sono stati punk involontari prima del punk. Peraltro Dee Dee,
Johnny e Joey Ramone si conobbero a scuola a causa della comune
passione per la band di Ann Arbor. Non un caso. Il docu-film,
proiettato fuori concorso per la prima volta a Cannes 2016, arriva
nelle sale italiane il 21 e il 22 febbraio (distribuito da BIM e Nexo
Digital) dopo una fugace apparizione all’ultimo Milano Film
Festival.
Iggy
Pop è un reduce, ma uno di quei reduci che hanno saputo mettere la
testa fuori da eroina e LSD, prima di soffocare lentamente. Quei
momenti di lucidità che fanno la differenza: puoi morire a 27 anni,
oppure continuare a fare la storia del rock fino a 70 anni e oltre.
Una
narrazione fatta di ricordi e aneddoti che tutta la band snocciola,
anche se il battitore libero principe di tutto questo è Jim
Osterberg, aka Iggy Pop. Dai ricordi dei rumori della fabbrica Ford
che tanto lo ammaliavano, fino alla tv e ai programmi preferiti come
Howdy Doody: «Uno di miei personaggi preferiti chiedeva a noi
spettatori di mandare lettere: non più di 25 parole. Quando ho
iniziato a scrivere canzoni ho fatto lo stesso. Non sono mica Bob
Dylan blah blah blah».
Ci
sono i suoi inizi da batterista, le prove nella roulotte gialla in
cui viveva con i suoi genitori e il cambio di ruolo («Ho lasciato la
batteria perché ero stanco di vedere solo culi»). E poi la
conoscenza con i fratelli Asheton (Ron e Scott) e Dave Alexander. I
primi dirompenti concerti di spalla ai fratelli maggiori MC5 dove
primordialità sonora, ruvida, dissonante e psichedelica – tanto
che prima si chiamarono Psychedelic Stooges – mescolata alla
capacità di Iggy Stooge (così si faceva chiamare nel disco
d’esordio del 1969, The Stoogees) di estremizzare al massimo lo
stare sul palco – ma anche giù dal palco, divenivano punto focale
di tutto il mondo Stooges. Tre dischi in soli quattro anni dal 1969
al 1973 che segnarono un solco profondo nel pre e dopo Stooges nella
storia del rock fuori dall’ordinarietà, ed è lì che andrebbe
fissato un punto di non ritorno e posizionata la pietra miliare di
tutto quello che è alternativo al classic rock. Un montaggio serrato
di immagini e video recuperati da fan, videomatori e archivi storici,
alternate ad animazioni – non eccessive e non troppo intrusive –
solo dove se ne sentiva il reale bisogno. C’è anche David Bowie e
la parte dell’iniziale della conoscenza dei due e della produzione
di Raw Power (1973), ma non il loro trasferimento a Berlino
(1976-1978), un periodo di disintossicazione che sarebbe stata legata
solo a Iggy Pop ma non gli Stooges. Si riprendono poi le fila e si
arriva direttamente alla nuova line-up e alla reunion al Coachella
del 2003.
Jim
Jarmusch ha il merito di rimettere al centro qualcosa che all’epoca
non aveva la consapevolezza di quello che avrebbe potuto influenzare
in futuro: dai Sex Pistols, passando per Sonic Youth e i più recenti
White Stripes. Gli Stooges erano qualcosa di non ben identificato,
più semplicemente chiamato proto-punk.
Gimme
Danger è un ottimo compendio per chi ama in maniera viscerale la
band, o per chi, semplicemente non ha mai avuto modo di approfondire
a dovere un gruppo fondamentale, grazie al quale quello che oggi si
ascolta è pur sempre merito loro.
God
save the Stooges, o quel che resta.