mercoledì 22 febbraio 2017

Jim Jarmusch + The Stooges = what else?


da gqitalia.it: 

In Gimme Danger vi capiterà di vedere Iggy seduto su una sedia, in ciabatte, in una stanza che sembra una lavanderia nel retro di un’abitazione. Oppure lo vedrete su un trono, scalzo, con dei teschi affianco. Estremi e facce della stessa medaglia: la naturalezza di essere se stesso, ovunque: «Non voglio essere etichettato come glam o alternativo. Non voglio essere nulla di tutto questo. Non voglio essere un punk. Voglio soltanto… essere».

E in effetti Iggy Pop e gli Stooges non sono stati nulla di tutto questo ma sono stati tutto. Sono stati la fiammella e il germe generatore prima dell’esplosione del punk. Sono arrivati nel momento giusto per «dare una mano a spazzare via gli anni 60».

James Newell Osterberg, così è registrato all’anagrafe, è rilassato, guascone, ammiccante, pronto a raccontarsi a favore di telecamera. Di fronte, più che un intervistatore, c’è un amico: Jim Jarmusch.

Non è la prima volta che l’Iguana appare in un lavoro del regista di Akron: c’è chi lo ricorda in Deadman (1995) con Johnny Depp e chi in dieci minuti di dialogo con Tom Waits in Coffee and Cigarettes (2003), una delle pagine di rock prestate al cinema più surreali possibili.

Gimme Danger è l’esaltazione e il riposizionamento al centro di tutto degli Stooges, dei quali spesso non si parla abbastanza diffusamente.

Jim Jarmusch lo dichiara senza troppi giri di parole: «È la nostra lettera d’amore per quella che probabilmente è la più grande band nella storia del rock’n’roll». Il giusto tributo al gruppo intero – non solo a Iggy.

Spesso si parte dal punk, si citano i Sex Pistol per il fronte inglese e i Ramones per il fronte punk rock americano. I due riferimenti più popolari che monopolizzano qualcosa, che però, senza Iggy Pop e gli Stooges, non sarebbe mai esistito.

Gli Stooges sono stati punk involontari prima del punk. Peraltro Dee Dee, Johnny e Joey Ramone si conobbero a scuola a causa della comune passione per la band di Ann Arbor. Non un caso. Il docu-film, proiettato fuori concorso per la prima volta a Cannes 2016, arriva nelle sale italiane il 21 e il 22 febbraio (distribuito da BIM e Nexo Digital) dopo una fugace apparizione all’ultimo Milano Film Festival.

Iggy Pop è un reduce, ma uno di quei reduci che hanno saputo mettere la testa fuori da eroina e LSD, prima di soffocare lentamente. Quei momenti di lucidità che fanno la differenza: puoi morire a 27 anni, oppure continuare a fare la storia del rock fino a 70 anni e oltre.

Una narrazione fatta di ricordi e aneddoti che tutta la band snocciola, anche se il battitore libero principe di tutto questo è Jim Osterberg, aka Iggy Pop. Dai ricordi dei rumori della fabbrica Ford che tanto lo ammaliavano, fino alla tv e ai programmi preferiti come Howdy Doody: «Uno di miei personaggi preferiti chiedeva a noi spettatori di mandare lettere: non più di 25 parole. Quando ho iniziato a scrivere canzoni ho fatto lo stesso. Non sono mica Bob Dylan blah blah blah».

Ci sono i suoi inizi da batterista, le prove nella roulotte gialla in cui viveva con i suoi genitori e il cambio di ruolo («Ho lasciato la batteria perché ero stanco di vedere solo culi»). E poi la conoscenza con i fratelli Asheton (Ron e Scott) e Dave Alexander. I primi dirompenti concerti di spalla ai fratelli maggiori MC5 dove primordialità sonora, ruvida, dissonante e psichedelica – tanto che prima si chiamarono Psychedelic Stooges – mescolata alla capacità di Iggy Stooge (così si faceva chiamare nel disco d’esordio del 1969, The Stoogees) di estremizzare al massimo lo stare sul palco – ma anche giù dal palco, divenivano punto focale di tutto il mondo Stooges. Tre dischi in soli quattro anni dal 1969 al 1973 che segnarono un solco profondo nel pre e dopo Stooges nella storia del rock fuori dall’ordinarietà, ed è lì che andrebbe fissato un punto di non ritorno e posizionata la pietra miliare di tutto quello che è alternativo al classic rock. Un montaggio serrato di immagini e video recuperati da fan, videomatori e archivi storici, alternate ad animazioni – non eccessive e non troppo intrusive – solo dove se ne sentiva il reale bisogno. C’è anche David Bowie e la parte dell’iniziale della conoscenza dei due e della produzione di Raw Power (1973), ma non il loro trasferimento a Berlino (1976-1978), un periodo di disintossicazione che sarebbe stata legata solo a Iggy Pop ma non gli Stooges. Si riprendono poi le fila e si arriva direttamente alla nuova line-up e alla reunion al Coachella del 2003.

Jim Jarmusch ha il merito di rimettere al centro qualcosa che all’epoca non aveva la consapevolezza di quello che avrebbe potuto influenzare in futuro: dai Sex Pistols, passando per Sonic Youth e i più recenti White Stripes. Gli Stooges erano qualcosa di non ben identificato, più semplicemente chiamato proto-punk.

Gimme Danger è un ottimo compendio per chi ama in maniera viscerale la band, o per chi, semplicemente non ha mai avuto modo di approfondire a dovere un gruppo fondamentale, grazie al quale quello che oggi si ascolta è pur sempre merito loro.

God save the Stooges, o quel che resta.


 




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