
... Perché dopo il messaggio di Armstrong, «qui base della Tranquillità, l’Aquila ha atterrato», la tensione si ruppe e salì al cielo un applauso che era l’applauso più fragoroso e più lungo che avessi mai udito, e insieme all’applauso un concerto di singhiozzi, di urli, di esclamazioni dove il sollievo si univa alla gioia, la gioia allo stupore, lo stupore all’orgoglio, e ciò non soltanto nell’auditorium, ma nei corridoi, nelle cabine radio, nelle stanze delle telescriventi, negli uffici, nello stesso Centro controllo dove mi dicono che Von Braun piangesse come un bambino. E piangeva Wally Schirra, e molti degli astronauti, e i direttori di volo. Il volto di Pete Conrad aveva il colore del gesso, quello di Alan Bean che scenderà con lui era terreo. Si alzò Charlie Duke, lasciò il posto a Ron Evans, spalancò la porta del Centro controllo, entrò nel recinto dei Vip e aggrappandosi a tutti balbettava: «We did it, we dit it! Ce l’abbiamo fatta, ce l’abbiamo fatta!». Poi Duke uscì dal recinto dei Vip, si mise a correre per le stanze, per gli edifici, ripeteva «we did it, we did it, o God God God! Dio Dio Dio!». Questi uomini forti, sempre freddi e sempre distaccati, questi uomini sempre convinti che una ruota debba girare per il semplice fatto che è una ruota. Ci volle un bel po’ perché si ricomponessero, ci ricomponessimo, e ripensassimo alla voce con cui Armstrong aveva detto «l’Aquila è atterrata». Una voce soffice, tranquilla, priva di qualsiasi emozione ...
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