Perfino Wikipedia, sempre attenta a battere la concorrenza sull’ora delle morte e ad aggiornare il presente in passato remoto, ci ha messo qualche minuto di troppo. Willy DeVille non era così famoso. Però lascia un vuoto simile a una voragine per chi lo ha amato, e pure la consapevolezza che il rock scivola grandioso come il tempo. Grandioso, inesorabile. Willy se ne va. A 59 anni, tumore al pancreas. Sul suo sito una nota a giugno. “Con il cuore spezzato vi annunciamo che i dottori gli hanno diagnosticato un cancro”. Date del tour annullate. Ieri sera poche righe. “Con il cuore pesante rendiamo noto che Willy è passato a miglior vita, serenamente”. C’è sempre un cuore che batte, perfino di troppo, nell’opera di questo americano meticcio. Era secco come un chiodo William, detto Willie. I capelli lunghi, i baffetti, le camicie con lo sbuffo e l’orecchino. Un corsaro, un pirata, un Capitan Uncino. Suonava rock ibrido, macchiato da mille contaminazioni nell’epoca consegnata alla purezza degli stili. Lui no. Lui shakerava . Metteva il punk assieme alle influenze latine, i quattro quarti dei vicoli con il lirismo, la poesia affranta con storie di donne e di coltello. Melò imprevedibile. Metà indiano d’America, metà irlandese, metà basco. Alcolico. Meraviglioso "cane randagio".
Cominciò la storia nella New York algida tra i ‘70 e gli ’80. Si chiamavano Mink Deville. Della formazione nessuno ha più memoria. Ma c’era lui, a volte con la giacchetta da domatore, altre con la canottiera. Lui. E quella chitarra caldissima e dolorante, la voce nasale e un po’ drammatica, la faccia da volpe a reinterpretare “Hey Joe”, come neanche Jimi Hendrix tra una tribù di ispanici. Ci sono dischi che vale la pena rispolverare e baciare esattamente al centro, per non inumidire il vinile. Dischi tipo “Cabretta” con “Spanish stroll”, sgangherata e imponente. Dischi come “Return to Magenta”, violento e pistolero, o come “Coup de Grace”, dove il colpo di grazia del punk si sposa al Martedì grasso, alle nenie di New Orleans e ai titoli di canzoni degli Stranglers e dei Plasmatics. Cajun e blues di fango. “Ho problemi con la band, coi manager e con me stesso”, diceva Willy. Poi, però, staccava la chitarra dal chiodo e tirava fuori dal cilindro operine oblique. Tipo “Le chat Blue”. Quando, anni dopo, venne a Roma a raccontarcelo si accompagnava a una bionda svampita, con un gatto tatuato sul braccio. Lei tutta fusa, minigonna e denti da vampiro. Lui ringhiante e ormonale. Pomiciarono anche sul palco del Palladium, club alla Garbatella, incuranti come una coppia da fumetto trash, un po’ Walt Disney, un po’ Corto Maltese, mentre la gente si spellava le mani. Pochi album da top ten, forse “Miracle” (’87) su tutti. Poi capitoli aperti, chiusi, ottimi produttori, ma quell’ansia di farsi male, provocare, ferirsi fino a vedere il bianco dell’osso che non ingrassa il business. Quindici anni di fuga tra New Orleans e il Southwest con la seconda moglie, Lola, “il gatto blu” , morta suicida mentre lui si faceva di eroina. Poi la svolta con Nina, la terza affettuosa compagna. Quindi qualche disco minore. Vale la pena ricordarlo con “Loup garou”, dove interpreta la parte dolente del lupo mannaro. C’è la canzone che chiude l’album, “My own desire”, che è un piccolo, prezioso testamento. La ninna nanna del vampiro, dove i sospiri hanno timbri da crepuscolo, a dispetto delle sbornie salsere. “Demasiado corazon” batte cassa, ma in lontananza.
Chiude l’epopea “Pistola”, del 2008. Nitroglicerina bagnata. Ci resta tutto il resto, però. Willy il bucaniere ci resta. Con la chitarra come una spada sulla prua di una nave fantasma. A indicarci l’isola che non c’è mentre la truppa fischia furiosa un rock’n’roll d’annata. Ci resta una parte di lui. Se ne muore un pezzo di noi. Cuore compreso.
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