This record must have been made in heaven, ha detto Jimmy Cobb, il batterista della formazione che Davis mise insieme per questo lavoro. Non si sbagliava di molto, questa è cosa certa.
'Kind Of Blue' è considerato uno dei capolavori di Davis, ma anche pietra miliare del jazz in genere. Nel 1959 radunò un sestetto (più o meno lo stesso che lo accompagnava in quel periodo), per delle sessioni di registrazioni che sono entrate nella storia, sia per l’immediatezza dell’esecuzione (si è addirittura diffuso il mito della registrazione alla prima sessione di ogni brano… non fu esattamente così), sia per la tecnica, così rivoluzionaria da porsi come nuovo punto di partenza per tutto il jazz che venne poi. Per i neofiti ancora incompetenti del jazz come me, non cambierà molto sapere che Kind Of Blue inaugurò il jazz modale, il cui suono svincolava gli accordi dalle tonalità, preferendo procedere per scale modali. Basterà capire che questo nuovo metodo compositivo apriva la strada ad una marea di sfumature inedite, liberando così il suono dalle regole che fino a quel momento anche Davis aveva seguito: questo fu uno dei passaggi che rese Davis uno dei musicisti più influenti del XX secolo.
Tornando al disco, non serve la conoscenza di tante nozioni per accorgersi subito della bellezza dell’opera. Un sestetto guidato dalla tromba di Davis e il sax tenore di Coltrane, con Adderley al sax contralto, Evans al pianoforte, Chambers al contrabbasso e Cobb alla batteria, non poteva che creare una perla di musica e atmosfera, mai noiosa e mai uguale a sé stessa, sempre in bilico tra ritmi sincopati e melodie rilassanti. Apre "So What" (ottima la citazione che ne fa Erykah Badu in 'Baduizm'), forse l’emblema di tutta l’opera, e gli fanno seguito altre quattro tracce (più una sesta, "Flamenco Sketches (alternative take)", non presente nell’LP originale), che si susseguono senza alcuna interruzione concettuale, secondo un disegno evidentemente unitario. Dall’inizio alla fine gli strumenti e i ritornelli si alternano senza che all’ascoltatore sia concessa la possibilità di distaccarsi dall’atmosfera creata, sempre crescente fino alla chiusa romantica finale. Non c’è un attimo in cui l’ascoltatore non segua il ritmo con i movimenti delle dita e della testa, non c’è un attimo in cui si possa fare a meno di lasciarsi trasportare, o emozionare. Insomma, è proprio un gran bel suonare, è un gran bel disco, un gran bel jazz, anche per chi gli si accosta per la prima volta. Anzi, è un ottimo motivo per farlo.
Riccardo Ruspi (rocklab.it)
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